C'era una volta (e c'è ancora) la Scuola Bottega
- Alice
- 25 mar
- Tempo di lettura: 4 min
Storia (a lieto fine) di un architetto "incastrato"
Tuffo nel passato remoto: anno 2014. Avevo finito da qualche mese l'Università e per coerenza ho provato a fare l'architetto. Ovviamente dopo decenni di massima ricerca di architetti, tutti avevamo fatto architettura e il mondo non aveva più alcun bisogno di noi... Tempismo perfetto, ma pazienza: proviamo ad andare in qualche studio dove anche se non gli interessa assumermi vedo com'è sto lavoro. Orari improbabili, computer giorno e notte, ambizioni altrui massime, valorizzazione mia minima, stipendio 4 euro all'ora in nero (ai colleghi maschi 8: beati loro...). E poi il peggio del peggio: solo disegni da concorsi, cose che rimangono nell'aria e su una cartella del computer. Vita immateriale: soddisfazione zero. Non tutta l'architettura è così, lo so, ma credo che non si possa biasimare il mio progressivo ribrezzo per il mestiere.
Francesca è un'amica dell'Università, abbiamo fatto insieme splendidi plastici, video in stop motion e fantastici calcoli di travi e pilastri (fantastici nel senso di "fantasiosi": non ne tornava uno, per fortuna non costruiamo palazzi).
Mi sa che a Francesca è venuta un'idea e mi ha fatto un regalo: mi ha ingaggiata per un mini-progetto, un progetto da fare per davvero! L'arredo di un ufficio, 4 metri per 3, una scatola vuota piena di pensieri grandi. Perché io ci vedevo "solo" un progetto di architettura ma in verità era un progetto che si chiamava "Trencadìs: recupero di persone, luoghi e materiali". La persona ero io (questo l'ho capito dopo), il luogo era l'ufficetto 4x3 e i materiali si portavano dietro una bella storia con protagonisti inaspettati...
Ogni arredo doveva essere progettato per essere realizzato con materiali recuperati da allestimenti temporanei delle fiere: pezzi di truciolato pesanti come il piombo, legni pieni di chiodi e assi mezze verniciate piene di schegge.

Ma la cosa bella doveva ancora venire... Chi avrebbe lavorato quei pezzi? Francesca e Enrico mi hanno portata a Rimini, in un capannone dove ci aspettavano due Maestri con la M maiuscola: Giuliano (mitico fabbro terra-a-terra, cuoco sublime) e Loris (inarrestabile falegname con le dita spuntate). Anni: over 60. Artigiani vecchio stampo, pensionati, eterni lavoratori, voci grosse e mani grandi, pensieri logici e voglia di fare fatica che a noi ci fa un baffo. Ma soprattutto: educatori.
Quel capannone di Rimini era la Scuola Bottega San Giuseppe, un'associazione in cui i due gran Maestri gestivano un laboratorio per ragazzi che avevano abbandonato la scuola troppo presto perché avevano un'unica certezza: nessuna voglia di studiare. Tra quelle mura fredde c'erano trucioli dappertutto, tavoli da lavoro, attrezzi ordinati e pezzi di legno recuperarti. Ogni chiodo da togliere era occasione per insegnare a un ragazzo il senso del lavoro, quel brivido di stare al mondo per dare il proprio contributo in un'opera più grande di noi.

I ragazzi, bellissimi dentro i grembiuli da falegnami, erano costantemente sotto la guida di questi inarrestabili maestri, che li guardavano con affetto e gli urlavano dietro con i rudi metodi educativi della generazione dei nostri nonni. Oh, non ci crederete: ragazzi Felici!
Inizio della giornata di lavoro ore 7:00, no-stop tra seghetti e carta vetrata fino all'una e poi pranzo di pesce tutti insieme ospiti a casa di Giuliano. Dulcis in fundo, obiettivo raggiunto: era così faticoso andare a lavorare trattati da Grandi che sono tutti tornati a studiare (continuando ad andare a mangiare il pesce da Giuliano).

Sarebbero stati loro a realizzare i miei disegni degli arredi per l'ufficio 4x3: dovevano essere progetti semplici perché erano lo strumento per insegnare a ragazzi che di falegnameria sapevano ben poco, dovevano avere misure speciali perché si doveva usare il materiale che c'era con le dimensioni che aveva, dovevano essere bellissimi perché sarebbero stati usati veramente e in più sarebbero stati donati! E un regalo deve essere bello dentro, ma anche fuori. E allora: vai con l'Architettura!

E alla fine l'ufficetto è nato, bianco e grigio, con arredi di dimensioni un po' strane, qualche imperfezione e una storia fantastica di persone che gli hanno dato vita.
Ero così felice che non mi è bastato fare qualche bella foto: ho preso un calcinaccio del vecchio intonaco e me lo sono incorniciato, e sta ancora lì di fianco al quadretto col ciuffo d'erba del Dall'Ara della sera in cui il Bologna è tornato in serie A. Nel mio piccolo altarino delle gioie grandi.

Per colpa di Francesca e della Scuola Bottega oggi sono ancora qui, un architetto che fa cose strane, sempre un po' imperfette e che lavora più con le persone che con i muri.
E anche la Scuola Bottega è ancora qui, stesso spirito e lavori diversi. Ora è in altri laboratori, nuovi maestri hanno preso il posto di Giuliano e Loris (diamogli un po' di santa pace a questi pensionati!), nuovi ragazzi imparano a usare le mani, la testa e il cuore, e nuovi oggetti nascono dai loro lavori.

Questa è la storia, volevo raccontarvela così sapete perché Scuola Bottega è proprio un affare da amare. Per quanto mi riguarda mi rimarrà sempre nel cuore perché è un po' il mio inizio, quando ho cominciato a vedere nuove prospettive e ho cominciato a fare l'architetto in un modo tutto nuovo. Forse già allora avevo iniziato inconsapevolmente la strada verso il design delle relazioni... Chissà dove mi porterà, io continuo per di qua.

Comments